«Così sono uscita dal labirinto della violenza»

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La storia


Oggi, 25 novembre, si celebra la Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne, istituita dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite il 17 dicembre 1999, con l’invito a governi, organizzazioni internazionali e ong ad animarla attraverso attività volte a sensibilizzare l’opinione pubblica sul problema.
In questa occasione pubblichiamo la storia di Maria, una donna uscita dal tunnel della violenza. La sua testimonianza è tratta da noneamore.caritasambrosiana.it, il sito dedicato di Caritas ambrosiana, che riporta i dati del fenomeno, la sua fenomenologia e una serie di indicazioni di servizio utili alle vittime.

Mi chiamo Maria, ho 50 anni. A 24 anni mi sono sposata con Luigi pochi mesi dopo il nostro fidanzamento. Era il sogno della mia vita: potevo costruire la mia famiglia con un uomo che mi diceva voleva lo stesso, insieme a me… Se ci ripenso ora… ora che la mia storia riesco a leggerla in maniera diversa da allora.

In quei pochi mesi che hanno preceduto il nostro matrimonio Luigi aveva avuto verso di me dei comportamenti particolarmente aggressivi: mi aveva insultata con parole che ricordo una a una. In una occasione, a suo dire, gli avevo fatto fare brutta figura con un suo conoscente; nell’altra occasione che ricordo, mi ha dato più schiaffi perché secondo lui stavo guardando «come solo lui sapeva» un mio amico. Non era vero, ma non sono riuscita a rispondere… poi lui si pentiva, si scusava e mi corteggiava assiduamente facendomi sentire cercata, desiderata. Ci siamo sposati, eravamo felici, così pensavo. Ma è capitato di nuovo: lo schiaffo, l’insulto, il «non essere buona a niente…». A questi erano poi seguiti momenti di tranquillità che mi avevano fatto illudere che lui stesse finalmente cambiando. 

La nascita di Matteo
Poi è nato Matteo, un anno dopo il nostro matrimonio. Che gioia per me quel bambino! Ma per lui… anche Matteo diventava il pretesto per litigare. Liti che spesso finivano a calci e pugni. Solo per me… Mi ricordo una sera che stavo dando da mangiare al piccolo seduto sul seggiolone e lui che mi intima di andargli a prendere il sale in cucina. Non sono stata abbastanza pronta, non come lui voleva. Me lo sono visto piombare addosso, mi ha fatto cadere dalla sedia rovesciandomi i piatti che erano sul tavolo. Dopo quella crisi lui si è chiuso in camera e mi ha costretto a dormire sul divano. Il giorno dopo, prima di andare al lavoro, si gira verso di me e mi saluta come se nulla fosse successo… Io invece non sapevo come comportarmi e per timore di attivare la sua reazione violenta mi adeguavo a ogni suo comportamento.

Più andava avanti il tempo, più gli anni passavano e più questi episodi si facevano frequenti, facendomi sentire come in trappola. Non riuscivo a non pensare a come poteva reagire per qualunque cosa io facessi e che se fosse risultata sbagliata ai suoi occhi me l’avrebbe fatta pagare. 

Sola, senza via d’uscita
Non potevo contare sull’aiuto di nessuno: la mia famiglia di origine vive lontano da noi e comunque non volevo coinvolgerli. E non avevo più relazioni oltre a lui e a Matteo: a lui le mie amiche non piacevano e non perdeva occasione per insultarle e usare anche loro come pretesto per litigare. E io non volevo litigare su ogni cosa… e così mi sono allontanata anche da loro.

Un giorno Matteo, nel frattempo cresciuto e uscito presto di casa per andare ad abitare con due amici mentre continuava gli studi e lavorava per mantenersi, mi guarda fisso negli occhi e mi dice: «Mamma, non puoi andare avanti così. Devi chiedere aiuto». Mi passa un volantino di un servizio della Caritas Ambrosiana e della Cooperativa Farsi Prossimo: donne che ascoltano le donne… «Chiama – mi dice -. non posso più vederti così: qualcosa si potrà pur fare?».

Il coraggio di chiedere aiuto
Così arrivo a parlare con due donne del Se.D. della Caritas Ambrosiana, assistenti sociali: mi ascoltano. Inizio a raccontare loro la mia storia: come posso, come riesco, a fatica. Capisco che insieme a loro operano anche altre persone. La chiamano “rete” di servizi. Dopo qualche colloquio, e tanti pensieri riesco a “vedere” che lui non cambierà, questo ora lo capisco. Il problema non sono io, è lui! Ma lui non lo “vede”… la cosa importante però è che ora lo vedo io.

Così accetto la loro proposta di un posto in comunità: lui all’inizio mi ha cercata dappertutto. Ho dovuto cambiato numero di telefono, dandolo solo alle persone di cui cominciavo ad avere sempre più fiducia; poi anche a Matteo al quale avevo spiegato il percorso che andavo a iniziare.

Una nuova vita
Non è stato facile, soprattutto i primi mesi: ma avevo trovato protezione e potevo permettermi di non avere più paura! Ho trovato il coraggio subito dopo di andare in Questura e di denunciarlo. L’iter legale è stato lungo e faticoso: la parte civile si è conclusa con una separazione giudiziale. Quella penale è ancora in corso. Durante il percorso di accoglienza mi avevano segnalato per un corso di formazione professionale che mi ha poi portata a essere assunta in un albergo con mansioni di cameriera ai piani. Quando ho firmato quel contratto, mi sì è riaperto il mondo! Ero felice, di nuovo…

C’è voluto un anno e mezzo, ma ora ho una casa mia, Matteo è venuto a stare da me e uniamo per ora le risorse economiche per andare avanti. Non è molto, ma ce la facciamo. E lui può continuare a studiare.

Il mio ex-marito ha smesso di cercarmi anche grazie alla mediazione del suo avvocato, che sembra averlo convinto a non mettere in atto azioni che peggiorerebbero la sua situazione.

Io sto provando a concedermi una nuova vita.


Articolo tratto dal portale della Diocesi www.chiesadimilano.it
 

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