Natale, il Signore si apre la strada nei cuori

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Riflessione


Natale: «Mi destai. Uscii. Vidi orme celesti nel suolo fiorito» (Juan Ramón Jiménez). Suolo fiorito, sotto le folate gelide di precarietà e di morte nella stagione della pandemia. Suolo fiorito; sì, tra una tana e l’altra, scavate dalla paura a mani nude, quelle della diffidenza e della solitudine. Le promesse non convincono, la bellezza sfuocata, come un’emorragia di gioia anche nei cuori più giovani; si infittisce la ragnatela della rassegnazione, ci si aggrappa a un filo di luce che viene dal mondo acceso sotto i pollici. Come desiderare la vita e la sua fioritura? Figli e figlie, padri e madri, le stesse comunità cristiane, nella morsa struggente di fragilità e distanze, alle prese con un’epoca nuova, tra impaccio, tanto smarrimento e qualche sogno.

Tenerezza e fraternità

Eppure il suolo fiorisce, davvero, anche quando il senso di impotenza alza la voce, anche quando le comunità cristiane devono osare evoluzioni epocali senza più la rete di una cristianità ormai finita. Fiorisce il suolo in occhi e mani che, proprio quando le parole si fanno logore e avare del calore della verità, inventano forme tenaci di cura, tessono legami di prossimità, stringono vincoli buoni di tenerezza e di fraternità. «La verità non è tanto nella parola ma negli occhi, nelle mani e nel silenzio. La verità sono occhi e mani che ardono in silenzio» (Christian Bobin). Sono orme celesti, Dio che si apre la strada nei cuori e si annuncia nelle mani aperte. Sono orme celesti che invitano ad abitare la terra dell’uomo e della donna, dei piccoli e dei vecchi, dell’eros e del lavoro, della natura e dello straniero; invitano a non disertare il suolo, mai, soprattutto noi che siamo sin troppo preoccupati di tener su un apparato ecclesiastico che sa poco di cielo.

Il più piccolo degli esseri

Natale, 50 anni fa: «Dio avrebbe potuto venire vestito di gloria, di splendore, di luce, di potenza, a farci paura, a farci sbarrare gli occhi dalla meraviglia. No, no! È venuto come il più piccolo degli esseri, il più fragile, il più debole. Perché questo? Ma perché nessuno avesse vergogna ad avvicinarlo, perché nessuno avesse timore, perché tutti lo potessero proprio avere vicino, andargli vicino, non avere più nessuna distanza fra noi e lui. C’è stato da parte di Dio uno sforzo di inabissarsi, di sprofondarsi dentro di noi, perché ciascuno, dico ciascuno di voi, possa dargli del tu, possa avere confidenza, possa avvicinarlo, possa sentirsi da lui pensato, da lui amato… da lui amato: guardate che questa è una grande parola! Se voi capite questo, se voi ricordate questo che vi sto dicendo, voi avete capito tutto il Cristianesimo» (Paolo VI, 25 dicembre 1971).

Contemplare la gloria

Mi destai nella notte del mondo, uscii da tane di demoralizzazione e da nidi ecclesiastici. Ho camminato sul suolo fiorito di Betlemme e di Nazareth e di Gerusalemme, tra una mangiatoia e la casa di un falegname e all’ombra della croce, nelle periferie del mondo; e, dall’inizio, ho visto orme celesti, tutta la pienezza del cielo in un bimbo avvolto in fasce. Ma bisogna uscire e abitare la storia con la sua bassezza e i suoi bassifondi, e tornare a contemplare la gloria in quella carne tenera di bimbo che non sa e non fa, nella sua passività che tutti accoglie, dandogli del tu, chiamandolo «Gesù» prima che «Maestro» o «Cristo» o «Signore»; proprio come fecero Maria e Giuseppe tra Betlemme e Nazareth, come fecero un ladro crocifisso e un cieco marginale nell’ora della sua passione.

Potremmo ritrovarci a cantare, su un suolo fiorito: «Abbiamo visto un bambino, abbiamo sentito la gioia, abbiamo fatto il bene».

di MARIO ANTONELLI, vicario per l'Educazione e la celebrazione della fede; dal portale della Diocesi chiesadimilano.it
 

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