Milano
«Non la prestazione, ma la relazione, non il sollievo, ma la salvezza, non l’accondiscendenza, ma la vocazione, non l’individuo, ma la persona nella comunità, non la popolarità, ma l’obbedienza al Padre». Si incentra su quelle che definisce cinque «avversative», l’omelia che l’Arcivescovo offre alle centinaia di delegati che partecipano al 42° Convegno nazionale delle Caritas diocesane, in corso al Centro Congressi di Rho Fiera e riuniti in Duomo per la celebrazione eucaristica.
A porgere il saluto è il neodirettore di Caritas Italiana, don Marco Pagniello, che richiama le tre vie indicate dal Papa: «Gli ultimi, il Vangelo, la creatività». E sottolinea: «Siamo qui e da qui vogliamo ripartire, per prendere forza dalla Parola e dall’incontro con il Signore, per coinvolgere sempre più tutte le comunità nell’accoglienza, nel servizio, nello spirito della gratuità e nella consapevolezza della responsabilità».
L’omelia dell’Arcivescovo
Dalla pagina evangelica di Luca al capitolo 5 – l’incontro del Signore con il lebbroso – si avvia la riflessione dell’Arcivescovo: «Gesù si prende cura del lebbroso e vuole purificarlo, ma opera la guarigione non come una prestazione, ma con il gesto scandaloso e imbarazzante di toccare l’uomo coperto di lebbra. Così indica lo stile che i discepoli sono chiamati a praticare e che la Caritas deve testimoniare e raccomandare a tutta la comunità. Se l’aiuto si riducesse a una prestazione basterebbero un ufficio e degli incaricati, se l’aiuto costruisce una relazione ci vuole un centro di ascolto e una comunità in cui le relazioni vivono».
Dunque, una prima avversativa, «non la prestazione, ma la relazione», cui l’Arcivescovo fa seguire le altre. La seconda: «Gesù si prende cura della malattia, non offre però il sollievo di un momento, la precaria guarigione, ma vuole salvare, restituire l’uomo alla sua dignità, offrire la speranza di essere dentro la storia del popolo in cammino verso la terra promessa. Così i poveri ricevono il dono della salvezza: non possono accontentarsi di “una piccola mano” per tirare a fine mese. E la comunità cristiana è chiamata a compiere il gesto di condividere il pane, ma non come una cosa da dare, ma piuttosto come un segno del pane della vita, perché chi crede in Gesù non muore, ma vive in eterno».
E, poi la terza «non l’accondiscendenza, ma la relazione»: «Gesù non accondiscende a una richiesta, ma chiama oltre. Così il bene compiuto e il bene ricevuto contengono una vocazione alla missione».
Infine, «non l’individuo, ma la persona nella comunità; non la popolarità e il consenso, ma l’obbedienza al Padre che ci ha chiamati». «Gesù purifica il lebbroso, riabilita una persona, ma non si ferma all’individuo: lo inserisce di nuovo nella comunità che lo ha espulso, lo rende presenza costruttiva nel popolo di Dio. Così chi pratica la carità non si prende cura di individui immaginandoli isolati, piuttosto promuove l’inserimento in una comunità in cui ciascuno possa dare e ricevere secondo le sue possibilità. Gesù guarisce la persona e rifugge dalla popolarità che pretende di trattenerlo, di fissarlo in un ruolo, di ridurre la sua missione a supporto di un mondo vecchio e statico, non per guadagnarsi il consenso. La sua missione è missione di evangelizzazione che deve giungere anche oltre, anche altrove, anche là dove nessuno lo aspetta e nessuno lo cerca».
Da qui la conclusione dell’omelia. «Le Caritas diocesane cercano le vie che lo Spirito suggerisce per percorrere la strada degli ultimi, per vivere lo stile del Vangelo, per essere creativi di fronte alle sfide inedite che affrontiamo. Forse, queste alternative presenti nel Vangelo, ci possono incoraggiare a proseguire».